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Marchini stai sereno: Mussolini non fu un urbanista. E tu non sarai sindaco

Ecco perché Mussolini non è stato un grande urbanista. E Marchini, che lo sostiene, non sarà sindaco di Roma

di Irene Ranaldi *

 

Il nonno, Alfio anche lui, era soprannominato Calce e Martello. Partigiano comunista dei GAP – i Gruppi di Azione Patriottica che compivano attentati e azioni mirate nelle grandi città – insieme al fratello Alvaro costruì e donò al Partito Comunista la sede di via delle Botteghe Oscure a Roma. Ora lui è candidato sindaco per il centro destra a Roma, dopo aver tappezzato le strade con lo slogan “libero dai partiti”. Grazie a lui nelle scorse settimane, maggio 2016, è capitato ancora di sentir dare adito a leggende metropolitane – se non vere e proprie offese a fatti storici documentati – come quella che vede Mussolini come il più grande urbanista del Novecento. Ce lo dice l’Alfio candidato, o meglio lo fa dire al nonno (si rivolterà nella tomba?): «Era il 1968, mio nonno viene invitato alla facoltà di Architettura a Valle Giulia. Hanno chiesto, alla fine della lezione, chi è il più grande urbanista in questa città? Ha risposto Benito Mussolini». Che cosa non si fa per la captatio benevolentiae in campagna elettorale… Tralasciamo le boutade di Marchini, lasciamolo “libero di chiudere i campi Rom” ma anche “libero di sparare cose del genere”. Ora è più preoccupato a dichiarare che “non celebrerà i matrimoni omosessuali” quando – magari ci crede davvero – sarà sindaco di Roma. Rassicuriamolo sul fatto che non celebrerà nemmeno quelli tra eterosessuali.

Analizziamo invece l’origine della mistificazione cresciuta attorno alla figura di Mussolini grande urbanista. Iniziamo col dire che nel 1931 Mussolini firma il piano regolare presentato da Marcello Piacentini che stravolge il piano regolatore presentato nel 1909 sotto la giunta Nathan. Al momento dell’approvazione del piano del 1931 gli abitanti erano quasi 800.000. Il Piano prevedeva una città di 2 milioni di abitanti, con una espansione “a macchia d’olio” di cui ancora la città porta i segni soprattutto nella periferia est. Nel centro storico, il cuore pulsante della città, tra la Suburra, il Palatino, Borgo Pio, il piano prevede pesanti sventramenti per favorire i flussi di traffico di attraversamento e isolare i monumenti e le aree archeologiche a scapito dell’edilizia storica minore. Per fare di Roma una immagine museificata e ferma nel tempo, funzionale alla costruzione della retorica dell’Impero fascista dopo i fasti dell’impero romano. Semmai quindi, più che grande urbanista, Mussolini è stato un grande «picconatore» ritratto dall’illustratore Achille Beltrame su una copertina della «Domenica del Corriere». Il piano Piacentini-Mussolini istituisce la divisione tra classi nella città e letteralmente deporta le migliaia di persone che da sempre la abitavano, in nuovi spazi di segregazione e anti-città, quasi completamente sconnessi da essa, demolendo interi quartieri. Nascono le borgate “ufficiali”, quelle “spontanee” e, infine, i borghetti. Le borgate ufficiali (Pietralata, Villa Gordiani, Tor Marancia, San Basilio, Primavalle, Tufello, Quarticciolo, Trullo), insediamenti urbanistici di edilizia popolare in quelle che allora erano le zone dell’Agro Romano, lontane dal centro abitato, con scarsissimi servizi primari come fognature ed elettricità. Rispetto alle altre borgate, quelle ufficiali furono espressamente pianificate dal Governatorato di Roma per trasferirvi i residenti delle vecchie case del centro storico. Nello stesso periodo, ai margini di una edificazione a macchia d’olio nascono le “borgate spontanee” come aggregati di costruzioni abusive, abitate da romani e non romani, sorte all’estrema periferia della città o nell’Agro Romano su terreni abusivamente lottizzati. Le borgate spontanee e i borghetti erano, in genere, gli insediamenti in cui le condizioni di alloggio e di vita della popolazione erano al livello più basso, in cui mancavano servizi basilari come acqua corrente, allacci fognari ed energia elettrica. Nelle borgate ufficiali – costruite con “case rapide” o “case rapidissime” in considerazione della cattiva o addirittura pessima qualità edilizia, abitavano circa 100.000 persone. Le borgate che nascono sotto il fascismo sono quelle della zona dell’Acquedotto Felice, del Prenestino, dell’Alessandrino, di Torre Maura e del Mandrione. Ma sono anche gli anni in cui, dopo una prima edificazione nel 1920 – due anni prima della marcia su Roma e dell’inizio della dittatura – si completa l’edificazione di Garbatella inizialmente nata come “borgo marinaro” per lo sviluppo della Roma verso il mare. A Garbatella il fascismo inventa un’altra forma abitativa transitoria solo di nome, per i romani: l’albergo bianco e l’albergo rosso, dove concentrare in parte oppositori del regime ed antifascisti.
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C’è da dire però che Mussolini è stato in compagnia di altri grandi urbanisti come lui. La passione per l’urbanistica accomuna e caratterizza tutti i regimi totalitari: la tentazione di fondare città nuove, cambiare quelle esistenti, erigere monumenti ex novo sono gli atti fondamentali di un sistema politico che ha come scopo primario il controllo delle coscienze, e quindi manipolazione della memoria, individuale e collettiva a scapito delle comunità urbane. Ad esempio nella Romania di Ceauşescu, dopo il 1977, la campagna di demolizioni ebbe una doppia funzione. La prima fu di distruggere la tradizione culturale romena, inventando una nuova tradizione “socialista”, mentre l’altra fu la funzione repressiva contro la persona. L’eredità ancora visibile oggi è Il Palazzo del Parlamento, il secondo palazzo al mondo per grandezza dopo il Pentagono, a Washington. Costruirlo ha richiesto la demolizione di circa un quinto dei quartieri storici di Bucarest. Come sempre la domanda che rimane anche oggi è: di chi sono le città?

Nicolae Ceauşescu sovrintende alla costruzione del “Palazzo del Popolo” a Bucarest

*Irene Ranaldi è una sociologa urbana, autrice di ricerche con un particolare focus su gentrification e trasformazioni dell’identità locale e urbana nei quartieri e sul rapporto tra globalizzazione e città. Ha scritto, tra l’altro, Testaccio. Da quartiere operaio a Village della capitale (Franco Angeli, 2012). È presidente dell’Associazione culturale “Ottavo Colle“.

 

 

 

 

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1 COMMENTO

  1. “Il palazzo era li all’angolo tra via delle Botteghe Oscure e via dell’Ara Coeli, ambizioso e incompiuto. Nel 1944 ci mette gli occhi addosso Alfio Marchini, cui Togliatti aveva chiesto, un giorno, di cercare una sede degna del nuovo Pci. Sono dunque i Marchini a rilevarlo, ristrutturarlo e consegnarlo al partito.” (…)
    “In autunno la Direzione del Pci si trasferì da via Nazionale al palazzo delle Botteghe Oscure. Il trasloco segnava un cambiamento di status, di ambizione, di prospettiva. Cominciava una nuova storia: si metteva fine a una fase della vita del Pci, avventurosa, disordinata e felice, e si metteva ordine nelle stanze, negli archivi e nelle teste. Un segnale, piccolo ma doloroso, di questo cambiamento di status e di prospettiva venne offerto dall’installazione di due diversi ascensori: il primo, al quale si accedeva direttamente, oltre la vetrata dell’ingresso, era riservato ai membri della direzione e portava ai loro uffici; il secondo, in fondo a sinistra, era per tutti gli altri, compagni dell’apparato, tecnici, e dirigenti. Il segno di una separazione che prima, in via Nazionale, non era nemmeno pensabile. Un piccolo colpo al cuore per quanti, un po’ ingenuamente, pensavano che nel partito, in anticipo rispetto alla società, dovessero realizzarsi i principi dell’uguaglianza.”
    da “Botteghe oscure addio” di Miriam Mafai

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