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I tuoi punti per la patente del tuo capo. Storie di precarietà

Oggi lo schiavismo si chiama precarietà: ricatti, vessazioni, paghe da fame. E leggi sicuritarie come moderne poor law

di Giorgio Cremaschi

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A Milano sulla metro  mi ferma un giovane,  impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in  ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente.

Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario,  e le chiede con la massima naturalezza: senti puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità  della ragazza il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione…che fa curriculum per la conferma a lavoro.

La ragazza ha subito il ricatto? Ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.

Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c’è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia.

Immaginiamo poi quando la precarietà dura all’infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l’esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico.

Pochi giorni fa la USB ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti  dalla polizia. .Qui ho saputo da un lavoratore disperato che nella pubblica amministrazione ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a  ben 580 euro lordi. Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l’umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime.

Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con  il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita  dell’azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro.

La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent’anni l’hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell’800 disciplinavano l’Asiento. Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse  da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la  merce lavoro  non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c’è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato  tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani.

Negli anni 70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l’articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del fiscal compact e ai conseguenti tagli al personale stabile,  sostituito dall’appalto e dal lavoro precario.

Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell’Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni,  con la complicità di Cgil Cisl Uil.  Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al jobsact i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può  essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel Trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi sicuritarie,  anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi gratuito in fabbrica.

È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I  devastatori del diritto però non hanno fallito, perché  alla fine hanno realizzato esattamente  ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi.

Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale  dello sfruttamento e della schiavizzazione  delle persone. Non è più tempo di  combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l’Unione Europea, i suoi governi  e le loro  regole di mercato vadano all’inferno.

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