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Profughi, terzo suicidio del 2017 a Milano

Milano, s’è impiccato un afgano di 34 anni nel centro di via Corelli. I tre casi sono la punta dell’iceberg del disagio psicologico e psichico di cui soffrono la maggior parte dei migranti

MILANO – Dall’inizio dell’anno è il terzo caso di suicidio di un profugo. Ieri mattina nel centro di via Corelli è stato trovato impiccato un afghano di 34 anni. Arrivato in Italia agli inizi di agosto, era riuscito a varcare il confine con l’Austria, ma poi era stato rispedito indietro, in base agli accordi di Dublino, per i quali il profugo deve chiedere asilo nel primo Paese in cui mette piede. Prima di lui a Milano nel 2017 si sono tolti la vita Mussie, eritreo, morto il 29 gennaio nel centro di accoglienza di via Aldini, e un maliano di 31 anni, impiccatosi a uno dei piloni lungo i binari vicino alla Stazione Centrale. Tre suicidi che sono solo la punta dell’iceberg del disagio psicologico e psichico di cui soffrono la maggior parte dei profughi. A fronte di un malessere e un bisogno diffuso tra i profughi, i centri in grado di seguire e affrontare queste situazioni sono pochi. Al limite si crea allarmismo quando uno dei profughi dà in escandescenze. Ma poi non si va oltre. A Milano c’è il progetto della Casa della Carità per i migranti con problemi di salute mentale, con otto posti. Ci sono poi l’ospedale Niguarda, con il reparto psichiatrico, gli ospedali San Paolo e San Carlo che hanno uno sportello di etnopsichiatrica e alcune associazioni (Naga, Opera San Francesco, Crinali e Terre nuove) che hanno equipe che si occupano di disagio mentale. Ma non basta. Sarebbe necessario investire di più, fare in modo che in ogni centro di accoglienza ci siano operatori formati per individuare i casi di sofferenza psichica.

Casa della Carità dal 2014 ha avviato, in collaborazione con il Comune di Milano, l’unico progetto di accoglienza, nell’ambito del Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati del Ministero dell’Interno (Sprar), rivolto esclusivamente a rifugiati con problemi di salute mentale, che provengono da altri centri non specializzati o da ricoveri in strutture ospedaliere. “In questi ultimi anni i casi sono aumentati sempre di più -spiega Laura Arduini, psichiatra e responsabile del progetto-. Spesso sono persone in fuga dalla guerra e che hanno subito violenze in Libia. Ogni volta che ascolto uno dei loro racconti penso che di peggio non possa esserci, ma poi la volta dopo un altro profugo mi racconta violenze subite ancora peggiori. Raccontano di aver subito scosse elettriche, di essere stati legati a camion in movimento, di essere stati lasciati senza cibo e acqua per giorni, quasi tutte le donne hanno subito violenze sessuali”.

Arrivano quindi in Italia con traumi spaventosi. “Ed è riduttivo classificare il loro malessere come disturbo post traumatico da stress -aggiunge Laura Arduini-, perché la loro condizione non è certo equiparabile a quella di chi magari si è salvato da un incidente. Occorre quindi una preparazione specifica per seguire questi casi. Dobbiamo considerare che hanno spesso flash back delle torture subite, non riescono a dormire, non riescono a imparare l’italiano perché hanno la mente affollata dalle immagine di torture, vivono in costante allerta e vanno in tensione appena vedono una divisa o un coltello. Vivono in angoscia perché hanno perso lungo la strada figli o moglie o marito e ora non sanno dove sono”. C’è poi una diversità culturale rispetto a quella occidentale. “Il disagio si manifesta in modo diverso, rispetto a quello che siamo abituati a vedere tra i pazienti italiani. C’è un modo diverso di concepire la malattia e anche il concepirsi come uomini o donne”.

Non si sa ancora molto della storia del giovane afghano che si è suicidato. Era però uno dei tanti ospiti in uno dei centri di accoglienza milanese. “Penso che Milano debba fare una riflessione importante -sottolinea Costantina Regazzo, direttore dei servizi di Progetto Arca, realtà che accoglie profughi in diversi centri-. Bisogna costruire un percorso di presa in carico delle situazioni più gravi: il rischio è che vengano palleggiati da un centro all’altro. È necessario che tutti trovino qualcuno capace di ascoltarli, perché la sofferenza c’è su tutti. Poi le risposte devono essere diversi. Tra l’altro quelli con problemi psichiatrici sono pochi, ma se non vengono seguiti possono diventare un problema perché sono schegge impazzite”. (dp)

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TAG: PROFUGHISUICIDIO

 

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