3.9 C
Rome
venerdì, Novembre 22, 2024
3.9 C
Rome
venerdì, Novembre 22, 2024
HomecultureNon desiderare la terra d'altri

Non desiderare la terra d’altri

L’occupazione italiana della Libia: violenza e colonialismo 1911-1943. Una mostra per non dimenticare [Chiara Nencioni]

In occasione del centodecimo anniversario della guerra di Libia, l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri – rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea- in collaborazione con la Casa della Memoria propone una mostra documentaria sull’occupazione italiana di quella regione che ormai da diversi anni è quotidianamente al centro dell’attenzione dei mezzi di comunicazione: la Libia.

La mostra è stata inaugurata presso la Casa della Memoria di Milano martedì 26 ottobre alle ore 18:00 e rimarrà aperta fino al 24 novembre (ingresso gratuito con green pass). Dedicata ad Angelo Del Boca (scomparso questa estate) che con il suo straordinario lavoro ha aperto la strada allo studio di una delle pagine più vergognose e ancora poco note della nostra storia, quella del colonialismo, l’esposizione è stata curata da Costantino Di Sante e Salaheddin Sury.

“Per rendere comprensibile all’opinione pubblica ciò che oggi sta lì accadendo, è indispensabile sapere ciò che vi accaduto nella storia del suo recente passato ancora poco conosciuto e studiato”, afferma Costantino Di Sante.

Questa è la prima esposizione pubblica sulla storia del colonialismo italiano, 70 m lineari di mostra, che sta facendo il giro di Italia e che è possibile replicare anche in altre sedi.

L’esposizione, il cui filo rosso è la violenza, apre al visitatore la possibilità di conoscere il periodo della colonizzazione italiana attraverso un percorso storico didattico, illustrato da oltre 70 pannelli, con testo sia in italiano che in arabo, corredato dalla proiezione di alcune fotografie storiche.

La mostra permette una riflessione su quelle che furono le violenze del colonialismo italiano senza tralasciare i contesti nei quali esse si verificarono. La scelta di documenti, foto e segni di memoria è stata effettuata, oltre che nell’archivio di Tripoli, anche negli archivi italiani dello Stato Maggiore dell’Esercito, del Ministero degli Esteri e presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, con la consulenza scientifica di studiosi italiani e libici. Uno dei grandi pregi di questa mostra è il fatto che nasce non da uno sguardo eurocentrico ma da un confronto

“La nostra impresa coloniale” ha affermato Cenati, Presidente ANPI Milano, “è legata all’aberrante concetto che non si è una grande potenza se non si hanno colonie, che la cultura europea debba prevalere sulle altre. L’impresa di Libia è frutto di un inganno, quello verso il popolo italiano attraverso l’illusione di avere della terra”. All’epoca eravamo noi a cercare condizioni migliori di vita in Africa, a “desiderare la terra d’altri”!

“La propaganda coloniale” continua Cenati “ha coinvolto anche alcuni socialisti, basti pensare al discorso pubblico di Pascoli La grande proletaria si è mossa. E tale idea si è intensificata nel ventennio fascista. In Libia sono arrivati circa 100.000 italiani, non il milione che sognava Mussolini ma il paese non è stato neppure uno scalo commerciale, come altre colonie, in cui 8-10.000 persone si fermavano esclusivamente sulla costa. Il colonialismo fascista degli anni ’30 ha agito poi con estrema ferocia, anche per separare la popolazione civile dai ribelli”.

La mostra espone anche foto di campi di concentramento per la popolazione civile, sorti in mezzo al deserto come enormi tendopoli, che ritraggono cataste di morti (prevalentemente donne e bambini) dietro alle quali stanno sorridenti in posa soldati italiani, o altre in cui militari strafottenti conducono alla forca resistenti libici incappucciati. Un paio di foto ritraggono l’arresto in ceppi e l’esecuzione, il 15 settembre 1931, di Omar Al-Mukhthar, capo dei “ribelli” libici.

Circa un quarto degli internati nei campi di concentramento italiani in Libia è morto nel primo anno di reclusione a causa delle durissime condizioni di vita. Circa 10.000 oppositori all’occupazione italiana sono stati deportati nelle isole di confino: Ustica, Ponza, Favignana, le Tremiti. E proprio alle Tremiti ben il 33% di loro è morto. Di questi patrioti libici resta solo una croce scalcinata nel cimitero locale sulla punta dell’isola di San Domino.

Altre foto sono aeree e mostrano i ruderi di alcuni di questi campi nel deserto o i 270km di reticolato confinario in filo spinato (“una volta e mezzo l’equatore” come si era vantato Graziani) fatto costruire dagli internati lungo il confine con l’Egitto, o i campi minati nel deserto (un migliaio di mine non è stato ancora bonificato ed è tuttora causa di morte per la popolazione locale).

Insomma, il colonialismo italiano non è stato solo strade ma anche stragi”, afferma Labanca, ordinario di storia contemporanea all’Università di Siena.

Questa mostra aiuta a confrontarci con il passato coloniale “che fatica a trovare posto nella coscienza dell’Italiano medio”, come ha detto all’inaugurazione Pezzino, presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri.

 

 

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Ultimi articoli

Lo squadrismo dei tifosi israeliani e il pogrom immaginario

Violenza ad Amsterdam: i fatti dietro le mistificazioni e le manipolazioni politiche e mediatiche [Gwenaelle Lenoir]

Ferrarotti è morto e forse la sociologia non si sente troppo bene

Vita e opere dell'uomo, morto il 13 novembre a 98 anni, che ha portato la sociologia in Italia sfidando (e battendo) i pregiudizi crociani

Un Acropoli che attraversa una città, recitando

A Genova va in scena, per la quindicesima edizione, il Festival di Teatro Akropolis Testimonianze ricerca azioni

Maya Issa: «Nessun compromesso sulla pelle dei palestinesi»

L'intervento della presidente del Movimento Studenti Palestinesi in Italia all'assemblea nazionale del 9 novembre [Maya Issa]

Come possiamo difenderci nella nuova era Trump

Bill Fletcher, organizzatore sindacale, sostiene che ora “il movimento sindacale deve diventare un movimento antifascista”. [Dave Zirin]